Fermata #165 - Lo strano caso islandese

In Islanda il mining è fiorente per le ottimali condizioni climatiche e la produzione energetica è 100% green: al governo non sta bene. Meglio coltivare mais in un'isola ricoperta di ghiaccio

Il giudizio è tranchant. Senza troppi giri di parole Katrín Jakobsdóttir, Primo Ministro dell’Islanda da novembre 2017, si è scagliata recentemente contro Bitcoin e, più nello specifico, contro il mining.

Il premier islandese è leader dal 2013 del Movimento Verde-Sinistra, partito che si concentra su politiche socialiste e ambientaliste. Il 23 marzo scorso Jakobsdóttir ha parlato al Financial Times, dichiarando che il Paese dovrebbe acquisire più indipendenza agricola e, per qualche ragione, anche disincentivare il mining di bitcoin.

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Il legame tra i due temi appare quasi inesistente, ma il dibattito sull’agricoltura - non proprio agevole in un Paese ricoperto in larga parte da ghiacciai - ha costituito un pretesto per il premier per bersagliare una delle industrie più floride della nazione.

Nonostante le mining farm presenti sul territorio costituiscano meno dell’1,5% dell’hashrate globale, l’Islanda è il Paese con il maggior hashrate per cittadino, anche per via della bassissima densità di popolazione: 3 abitanti per km2.

Il Primo Ministro ha aggiunto:

La preziosa elettricità rinnovabile dovrebbe essere riassegnata dai data center alle abitazioni e ad altre industrie. La priorità è il fabbisogno energetico dei 375.000 cittadini islandesi.

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L’offuscamento della verità e la curiosa soluzione

Per quanto l’idea che un Primo Ministro possa pretendere di decidere indipendentemente quanta energia produrre e verso chi o cosa veicolarla dipinga più un contesto da Corea del Nord che da Islanda, vale la pena concentrarsi su dettagli dell’isola islandese che né dal Financial Times né dal Primo Ministro vengono messi in evidenza.

Il surplus energetico

In primo luogo, l’Islanda non solo ottiene la totalità della sua energia elettrica da fonti rinnovabili - 69% idroelettrica e 31% geotermica - ma l’elettricità è stata storicamente prodotta in surplus. In parole semplici: la produzione di corrente in Islanda per molti anni è stata superiore alla domanda.

Lo scorso 31 agosto Bloomberg ha pubblicato un report sul tema, concentrandosi specificamente sul ruolo dei miner sull’isola. (Di seguito l’intero video-reportage)

L'isola vulcanica - scrive Bloomberg - funziona interamente con energia idroelettrica e geotermica, di cui storicamente crea un'eccedenza. I miner hanno sfruttato questa energia per i loro computer ad alta intensità energetica. Non solo l'Islanda ha un'abbondanza di energia rinnovabile, ma il suo clima fresco è attraente per i data center.

Secondo il report hashrate index pubblicato nell’agosto del 2023 dalla mining pool Luxor, l'industria islandese del mining consuma circa 120 MW. Questo non è un problema perché le ricchissime fonti rinnovabili sono state intelligentemente sfruttate dai cittadini locali che hanno costruito molte centrali: l'Islanda è il Paese con la produzione di elettricità pro-capite più alta del mondo, quasi il doppio rispetto a quella della Norvegia, seconda in questa speciale classifica.

L’elettricità a basso costo, tuttavia, non ha attratto unicamente le mining farm. L’Islanda è il decimo Paese per manifattura di alluminio al mondo e questa industria utilizza il 70% dell’intera produzione elettrica della nazione.

Dunque energia rinnovabile prodotta in quantità superiore alla domanda delle industrie e dei cittadini islandesi, con mining farm e fabbriche di alluminio che comprano l’offerta in eccesso generando valore economico.

Meglio il mais… in un’isola di ghiaccio

Il punto è che negli anni la crescita di queste due industrie ha colmato il surplus energetico islandese e ora nel Paese la corrente elettrica è paradossalmente un bene scarso. Per quale motivo l’offerta non si è adeguata?

Perché per i sedicenti ambientalisti persino gli impianti dedicati alle rinnovabili rappresentano una minaccia. Secondo Bloomberg alcuni temono che “la richiesta esponenziale di elettricità da parte dei miner comporterà inevitabilmente un aumento delle centrali elettriche, che potrebbe danneggiare l'ecosistema unico dell'Islanda”.

Il governo socialista appoggia tale visione: lo scorso giugno è stata posticipata l’approvazione del premesso per costruire una nuova centrale 100% idroelettrica “per prendere in considerazione nuove informazioni sui potenziali impatti ambientali del progetto” come riporta il sito d’informazione locale Visir.

A questo punto viene da chiedersi se lo scetticismo nei confronti di Bitcoin, tipico di certi governi e movimenti di attivisti, sia motivato da ragioni concrete oppure dalla semplice ostilità verso il progresso tecnologico ed economico, guidata dalla malsana e auto-distruttiva ideologia della decrescita felice.

Ironicamente, secondo il premier la soluzione è sfruttare l’Islanda per attività per cui il territorio nazionale è inadatto. Anziché lasciar prosperare le industrie del mining e dell’alluminio, per la cui operatività le condizioni climatiche sono perfette, e di sfruttarne i proventi economici per l’importazione di materie prime a basso costo, il piano del governo è quello di allocare ingenti risorse per provare a coltivare il mais in un’isola ricoperta di ghiaccio.

Come riporta il Financial Times, “l'Islanda, dove la scarsa luce del giorno e le temperature rigide rendono difficile la coltivazione, sta introducendo un nuovo sistema di finanziamento delle aziende agricole per incrementarne la produzione”. “Bitcoin non è parte della missione”, ha detto il Primo Ministro.

Se non ci fossero i governi e le loro meravigliose idee inefficienti, andrebbero inventati solo per farsi due risate.

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