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Fermata #190 - Il prezzo è un linguaggio
Il mercato come espressione della nostra innata propensione a scambiare: un viaggio dalla piazza di paese alle relazioni che definiscono l'economia moderna, tra efficienza e libertà individuale
Tornano per il periodo estivo le fermate dedicate a estratti di libri importanti per comprendere le implicazioni economiche e politiche di Bitcoin.
Le fermate saranno sette, da sabato 3 agosto a sabato 31 agosto. Gli approfondimenti tradizionali riprenderanno mercoledì 4 settembre.
Autore: Alberto Mingardi
Editore: Marsilio
Anno di pubblicazione: 2013
Siamo tutti consumatori e siamo tutti produttori. Dovremmo avere una certa familiarità con il funzionamento di un’economia di mercato. Essa è frutto, secondo Adam Smith, di una propensione innata nella natura umana: «la propensione a trafficare, barattare e scambiare una cosa con l’altra».
Se questa naturale propensione è osservabile anche in gruppi che vivono in economie arretrate e chiuse, è altrettanto vero che c’è un’analoga tendenza, nell’essere umano, a isolarsi, a ricercare l’autosufficienza e l’indipendenza dal gruppo. Il problema è che quest’ultima strada non è praticabile. I bisogni che possiamo interamente soddisfare da soli sono pochi: noi scegliamo di stare con gli altri, decidiamo di entrare in relazioni di scambio con loro, perché il costo di non farlo sarebbe una vita più povera. Che gli esseri umani scambino per vocazione o per necessità, nel corso della storia lo scambio ha trovato per centinaia di anni un suo luogo: la piazza.
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Pensate al mercato nelle piazze di paese: quello in cui le nonne di alcuni di noi andavano a vendere frutta e verdura, e le nonne degli altri andavano a comprarle. Il mercato della frutta e della verdura è un caso relativamente semplice: con l’eccezione di pochi commercianti all’ingrosso, che possono essere venditori e compratori assieme, per il resto ciascuno dei partecipanti è stabilmente «da una parte» del mercato. A variare nel tempo sono la quantità di frutta e verdura disponibile per i venditori e le preferenze dei consumatori. In un mercato all’aperto di questo genere vedremo i vari banchi provare a specializzarsi, ciascuno a modo suo, per venire incontro ai gusti dei clienti.
Ci sarà il venditore che terrà sempre gli asparagi bianchi di Terlano e quello che cercherà di procurarsi appena possibile quelli verdi di Santena. L’uno e l’altro tenteranno così di guadagnarsi con il tempo la fiducia dei clienti. Le nostre madri, le nostre nonne, sapevano e sanno presso quale bancarella i prezzi sono più bassi, quale verduraio ha le pesche più belle, maturano convinzioni granitiche su chi, fra i venditori ambulanti, sa trattarle come si deve. E, di conseguenza, scelgono l’uno o l’altro, pronte a cambiare idea, ad affacciarsi a un’altra bancarella, in caso subiscano uno sgarbo o il prezzo faccia un balzo in avanti, a loro modo di vedere, ingiustificato.
Un mercato funziona così: è in questo modo che chi vende impara a conoscere chi compra, quali asparagi gli garbano, quanto è disposto a pagarli. Ed è in questo modo che chi compra impara a conoscere chi vende: la qualità della sua merce, l’abilità nell’accattivarsi i clienti, la propensione o meno a tirare su il prezzo.
Tutto questo non è altro che un’esperienza che abbiamo fatto migliaia di volte nella nostra vita. Il mercato non è un mostro biblico, non è la Spectre, non è una grande lavagna dove scrivono solo i membri del Bilderberg Group. Piuttosto, davvero si potrebbe dire: il mercato siamo noi.
Le risorse sono limitate, a cominciare dalle più basilari: il tempo e lo spazio. È per questo motivo che esse devono trovare impieghi alternativi: sullo stesso appezzamento di terreno non si possono costruire due case contemporaneamente. Né il medesimo operaio specializzato può lavorare allo stesso tempo per un’impresa che fa orologi da polso e per una che produce frigoriferi.
Allora, in un mondo di scarsità, inevitabilmente sorge un problema: come distribuire queste risorse scarse? Diritti di proprietà privata chiaramente definiti limitano il grado di conflittualità circa il possesso di una data risorsa. Ma chi assegna a qualcuno un diritto di proprietà su qualcosa? Molto spesso si parla di «efficienza» nell’allocazione delle risorse, come se ciò fosse un problema per la «società» nel suo complesso.
Quando diceva che «non esiste nessuna cosa come “la società”, ma solo uomini e donne e famiglie», il primo ministro britannico Margaret Thatcher non voleva certo sostenere che donne e uomini non fossero, l’uno con l’altro, in rapporti sociali. Voleva dire che non esistono relazioni fra donne e uomini che possano prescindere da quelle donne e da quegli uomini in carne e ossa.
Se la «società» esistesse indipendentemente dagli individui che la compongono, se cioè avesse voleri, esigenze, principi, preferenze, necessità propri, si potrebbe pensare che le risorse andrebbero distribuite seguendo questi voleri, esigenze, principi, preferenze e necessità. Qualora la si pensi così, il mercato non ha ragion d’essere: è inutile. Il mercato serve per l’appunto a coordinare il comportamento di persone che non sono considerabili esclusivamente alla stregua di pedine sulla scacchiera.
La «società» potrebbe ritenere che i diversi prodotti della terra debbano trovare una loro distribuzione attraverso un qualche principio di ordine «nutrizionistico»: più verdura ai bambini, per esempio, perché indispensabile nella fase della crescita. Oppure, la «società» potrebbe ritenere che sia più economico e più efficiente che ciascuno mangi solamente cibo proveniente dalle vicinanze del luogo in cui abita. È un’idea che va abbastanza di moda: i consumi «chilometro zero» sarebbero più rispettosi dell’ambiente, perché – com’è ovvio – avendo inferiori costi di trasporto lascerebbero un’«impronta carbonica» più piccola. Ma chi può mangiare esclusivamente le verdure dell’orto di casa propria è una persona che probabilmente si sente poco libera e molto povera.
Alle prese con il primo giardino della sua vita, a mia madre è venuta la passione di mettere in salamoia le sue olive e di friggere le foglie di menta che coltiva nell’orto. Buonissime, perlomeno queste ultime, ma difficile che bastino per una dieta equilibrata.
Se c’è mercato, la società non ripartisce le risorse secondo un proprio criterio, quale che sia. È un pranzo à la carte, non a menu fisso. È per questo motivo che il mercato esalta la nostra libertà di scegliere.
Le nostre aspettative sono in larga misura esito dell’esperienza, ma non ne sono solo una cristallizzazione. Le chiamiamo aspettative perché includono la nostra visione del futuro. Quando compriamo frutta e verdura, il pezzo di futuro che tendiamo ad anticipare è piuttosto limitato: pensiamo a che cosa avremo voglia di mangiare e a quale parte del nostro reddito possiamo impiegare in asparagi nei giorni a venire. Il fatto di avere delle aspettative non significa necessariamente che esse siano il frutto di riflessioni particolarmente solide o ben informate.
Molto spesso andremo a rimorchio dell’opinione prevalente, altre volte ci baseremo sul parere degli amici, in pochi casi saremo proprietari di una prospettiva autenticamente originale. In nessun caso saremo in grado di prevedere il futuro. Ma, in tutti, cercheremo di immaginarlo. Proprio il fatto che ognuno agisca conseguentemente alle sue aspettative fa sì che il mercato si riveli un grande processo di apprendimento.
Non solo apprendiamo gli uni ciò che desiderano gli altri: ma impariamo, più o meno consapevolmente, a mettere a fuoco la nostra visione del futuro sulla base di quella degli altri. Il mercato è una sorta di testo: partecipandovi, impariamo a leggerlo. La lingua nella quale è scritto è il linguaggio dei prezzi.
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