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Fermata #35 - Web3 e Web5: il tempo delle buzzword
Jack Dorsey annuncia di voler costruire il Web5, l'Internet su Bitcoin. Realtà o fantascienza? Giacomo Zucco: l'alternativa decentralizzata sarà sempre più lenta e inefficiente di quelle centralizzate
E’ possibile decentralizzare il Web? E’ già pronta la tecnologia per farlo o serviranno anni, se non decenni?
Sono le domande a cui in tanti stanno provando a rispondere per risolvere uno dei problemi più noti e dibattuti degli ultimi quindici anni. La svendita dei nostri dati online in cambio di servizi comodi ma solo apparentemente gratuiti.
La narrativa del Web decentralizzato è riaffiorata in modo prepotente nell’ultimo anno e mezzo con la diffusione del termine Web3, l’idea di una rete decentralizzata basata su blockchain in cui ogni utente sia in grado di detenere e gestire in autonomia i propri dati.
Negli ultimi giorni un nuovo player si è aggiunto alla partita, il Web5: un Web costruito interamente su Bitcoin, la rete più distribuita attualmente esistente: è l’ennesima buzzword futuristica oppure un’idea concreta che vale la pena approfondire?
Per provare a capirlo serve fare un passo indietro, ricordando perché serva eliminare l’oligopolio che regola ciò che utilizziamo ogni giorno, ovvero il Web21.
Web2: il regno di Big Tech
Un ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita. Un potere strumentalizzante che impone il proprio dominio sulla società e sfida la democrazia dei mercati. Un’espropriazione dei diritti umani fondamentali che proviene dall’alto: la sovversione della sovranità del popolo.
E’ così che viene definito da Shoshana Zuboff2 il capitalismo della sorveglianza, cioè quel mondo dominato e regolato da poche entità che godono di un potere economico e politico sconfinato in grado di superare persino quello degli Stati. E’ la realtà che viviamo quotidianamente, in cui le regole del gioco vengono stabilite da Big Tech3.
“Se non paghi il prodotto, il prodotto sei tu” si dice nel documentario The Social Dilemma. Da anni si dibatte su come le grandi piattaforme stiano cambiando il modo di pensare, di vivere e persino di votare delle persone. L’accesso gratuito a servizi estremamente evoluti è subordinato alla cessione di una quantità inestimabile di dati che vengono elaborati e venduti al miglior offerente: gli esempi sono molteplici, il più famoso è indubbiamente quello del ruolo di Cambridge Analytica nelle elezioni americane del 2016 e nel referendum sulla Brexit.
Serve quindi un’alternativa allo scenario che caratterizza il nostro presente, un modo per tornare in possesso dei nostri dati. Come fare?
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Web3: la decentralizzazione secondo i Venture Capitalist
Nel 2021 è esplosa la moda del Web3: l’idea di un Web decentralizzato in cui i dati siano custoditi da servizi la cui proprietà è in mano agli utenti che ne detengono i token (in sostanza, le azioni).
Pensate a un social network dall’azionariato diffuso che anziché reggersi sui server di Meta gira su Ethereum, al quale accedere con profili gestiti dall’utente finale tramite chiavi private. Profili che, rispondendo a un unico standard, quello di Ethereum, possono essere utilizzati per accedere ad altri servizi che girano sullo stesso computer globale4. Questo meccanismo - quello di poter gestire i propri dati e utilizzarli su piattaforme diverse senza dover creare un profilo ad hoc per ogni servizio - è definito portabilità dei dati.
Chris Dixon, noto investitore statunitense e partner della società di Venture Capital da 4 miliardi di dollari Andreessen Horowitz, spiega perché secondo lui la portabilità dei dati è importante:
Gli utenti possono facilmente cambiare servizi se questi iniziano a far pagare troppo, a inserire annunci e feed algoritmici, a strozzare il loro traffico o a maltrattarli in altri modi.
Why is data portability important?
It means that users can easily switch services if those services start charging too much, inserting ads and algorithmic feeds, throttling their traffic, or mistreating them in other ways.
— cdixon.eth (@cdixon)
8:59 PM • Jan 8, 2022
Non si parla solo di dati personali o di navigazione ma anche di prodotti del proprio lavoro. Content creator, giornalisti, artisti potrebbero gestire autonomamente le proprie opere digitali (video, articoli, podcast ecc…) senza regalarle a Youtube, Spotify, Apple, Meta o altri giganti.
Bello, vero? Peccato che l’idea, di per sé dagli ottimi presupposti, si fondi su tecnologie che tutto sono fuorché decentralizzate. Ethereum ne è l’esempio più noto, ne ho scritto nella fermata #32.
Inoltre i token (shitcoin sarebbe il termine più appropriato) emessi dalle startup che dovrebbero sviluppare applicazioni e servizi per il Web3 non rispecchiano affatto l’idea di un azionariato distribuito. In gran parte sono in mano ai Venture Capitalist che hanno visto nella moda del Web3 un’occasione di arricchimento con pochi precedenti.
Secondo un report di Galaxy Digital solo nel 2021 sono stati riversati nel settore crypto/blockchain 33 miliardi di dollari, una cifra più alta di tutti gli altri anni sommati.
La cosa non dovrebbe sorprendere, visto e considerato il fatto che mondo crypto e blockchain non sono altro che buzzword con l’unico obiettivo di dare una parvenza innovativa al mondo finanziario tradizionale (ne ho scritto in questo breve saggio).
L’incentivo a creare token che permettano di detenere quote di una piattaforma non porta a un Web migliore, ma a una raccolta fondi con nuove shitcoin prive di casi d’uso reali se non quello di arricchire i loro maggiori detentori (i Venture Capitalist) che, una volta realizzato il profitto, possano vendere la shitcoin di turno in massa lasciando gli utenti del servizio con il cerino in mano.
Il Web3 non è altro che il rebrandig del periodo delle ICO.
A pensarlo è anche Jack Dorsey, fondatore di Twitter e attuale ceo di Block.
Non siete voi i proprietari del "Web3". I Venture Capitalists e le loro Limited Parnters (struttura societaria, nda) lo sono. (Il Web3) Non sfuggirà mai ai loro incentivi. In definitiva, è un'entità centralizzata con un'etichetta diversa. Sappiate in cosa vi state imbarcando...
You don’t own “web3.”
The VCs and their LPs do. It will never escape their incentives. It’s ultimately a centralized entity with a different label.
Know what you’re getting into…
— jack (@jack)
3:51 AM • Dec 21, 2021
Dorsey sul punto ha perfettamente ragione. Attenzione però, le sue dichiarazioni potrebbero non essere completamente scevre da interessi personali.
E’ proprio Dorsey tramite TBD, società controllata da Block, ad aver proposto recentemente l’alternativa al Web3: il Web5.
Web5: la soluzione è Bitcoin?
Per poter realizzare autenticamente un Web decentralizzato serve una rete che sia tale: nulla meglio di Bitcoin.
L’idea del Web5 è di costruire il Web del futuro su Bitcoin, utilizzando applicazioni e protocolli che girino su una tecnologia controllata davvero dai suoi utenti (i nodi) e senza l’introduzione di inutili token da far emettere a fondatori, fondazioni o lobbisti vari, ma facendo affidamento sui soli bitcoin.
this will likely be our most important contribution to the internet. proud of the team. #web5
(RIP web3 VCs 🤫)
developer.tbd.website/projects/web5/
— jack (@jack)
5:35 PM • Jun 10, 2022
Lo sviluppo del Web5 dovrebbe basarsi su tre concetti cardine:
Decentralized Identifiers (DIDs)
Decentralized Web Nodes (DWNs)
Verifiable Credentials (VC):
DIDs: tecnologia che permette di possedere i dati relativi alla propria identità digitale consentendo l'autenticazione decentralizzata e l'instradamento delle identità. I DID sono autogenerati e autogestiti, non richiedono un'autorità di registrazione centralizzata.
DWNs: archivi di dati personali che contengono dati pubblici e criptati. Consentono l'interazione tra diverse entità che devono verificare l'identità reciproca per potersi trasferire informazioni. Possono essere crittografati con chiavi DID individuali.
VCs: formati e modelli di dati per la presentazione e la verifica crittografica delle credenziali digitali.
Per capire se l’idea dietro al Web5 sia realizzabile e se la tecnologia sia effettivamente pronta, mi sono rivolto a Giacomo Zucco:
Le critiche di Jack Dorsey al Web3 - da cui il nome ironicamente iperbolico Web5 che lascia trapelare scetticismo sulle enfatizzazioni - lasciano pensare che l’idea nasca per eliminarne i problemi e questo è un bene.
E’ un bene anche il fatto che non voglia usare token inutili - ma solo i bitcoin per i pagamenti - o blockchain inutili - solo quella di Bitcoin per le funzioni di notarizzazione -. E’ positivo che l’idea parta in ordine sensato: prima identità, trasmissione e storage dati e altri elementi e solo dopo, come culmine ipotetico, la “computazione distribuita”: la supercazzola sulla cui base si fonda Ethereum.
Va però detto che, anche se affrontati nel giusto ordine, sono tutti problemi difficili che in alcuni casi, come quello dei DIDs, non garantiscono la scalabilità. Probabilmente serve ancora molto lavoro anche solo sui punti di partenza e questo non è un bene.
Inoltre un'alternativa decentralizzata sarà sempre più lenta, costosa e inefficiente di quelle centralizzate. Quindi anche se la prima bisogna costruirla ora, per tempo, come una sorta di Arca di Noè, le seconde continueranno ad essere più popolari fino all'arrivo del diluvio (aumento ulteriore della censura di massa, catastrofi tecniche, ecc.)
Se da un lato Web3 è una buzzword perché vende come decentralizzato un sistema che non lo è, Web5 potrebbe diventare una buzzword perché, almeno oggi, la tecnologia non sembra del tutto pronta per reggere un ecosistema di applicazioni e di servizi così complesso.
Servirà pazientare, nel frattempo accontentiamoci di provare a rivoluzionare il sistema monetario globale.
Online su YouTube la live di martedì scorso con Massimo Musumeci
Di seguito la nuova puntata dei video-approfondimenti live dedicati al tema della settimana di Bitcoin Train sul canale YouTube di Massimo Musumeci, fisico, ricercatore Bitcoin ed esperto di privacy e sicurezza informatica.
Appuntamento tutti i lunedì alle ore 17:00.
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