Fermata #4 - La libertà ha un prezzo

Le banche iniziano a offrire servizi di custodia di criptovalute e gli exchange si istituzionalizzano. Ma attenzione: delegare la gestione dei propri bitcoin significa non averne il controllo.

Le banche si avvicinano alle criptovalute e gli exchange strizzano l’occhio ai regolatori internazionali: da una parte il mondo tradizionale che prova ad allungare le mani su un’economia in grande espansione - che già oggi vale 2.300 miliardi di dollari -, dall’altra le piattaforme che puntano a istituzionalizzarsi per non essere limitate dalle authority1.

Istituti di credito ed exchange centralizzati convergono verso un mercato destinato a crescere molto nei prossimi anni: quello della gestione dei patrimoni cripto.

Banche e finanza tradizionale: occhi su Bitcoin

Custodia bancaria

A luglio 2020 il regolatore bancario degli Stati Uniti2 aveva chiarito in una lettera la possibilità per gli istituti di credito americani di offrire servizi di gestione di criptovalute.

Da allora hanno annunciato l’ingresso nel business banche molto importanti: Bank of New York Mellon (la più antica d’America), JP Morgan Chase e Morgan Stanley (per i clienti più facoltosi), Citi, Goldman Sachs, Wells Fargo e, ultima in ordine di tempo, US Bank.

Una volontà, quella delle banche americane, spinta dalla forte domanda del mercato. Una ricerca ha evidenziato come il 17% dei consumatori statunitensi detenga già bitcoin o altre criptovalute e il 60% di questi vorrebbe poter usare la propria banca per investirci ulteriormente. Il 32% potrebbe considerare l’opzione e solo il 4% ha escluso ogni coinvolgimento degli istituti di credito nei propri investimenti in cripto.

Un Etf imminente?

E’ in costante crescita la pressione nei confronti della Sec3 per l’approvazione di un Etf4 legato al valore di bitcoin. Ad agosto il capo della stessa Sec Gary Gensler aveva evidenziato la necessità di un maggiore controllo dei cripto-asset prima di poter rendere disponibile il fondo (qui la dichiarazione), che comunque potrebbe diventare realtà entro fine anno.

Un primo passo, in effetti, lo si è già visto il 5 settembre, quando la Sec ha autorizzato un Etf il cui paniere conterrà azioni di 30 aziende con bilanci esposti in modo significativo su bitcoin: tra queste sembra verranno incluse MicroStrategy, Coinbase, Tesla, Square e PayPal.

Exchange sempre più regolamentati

Se fino a pochi anni fa aprire un account su un exchange era relativamente semplice e veloce, oggi - pur con differenze tra le varie piattaforme - si devono fornire documenti e dati personali non molto diversi da quelli necessari per l’apertura di un conto in banca. Qui una lista degli exchange più importanti.

Il motivo è che, offrendo servizi finanziari ed essendo aziende vere e proprie, queste piattaforme sono obbligate a rispettare i paletti delle authority e a implementare livelli di sorveglianza poco compatibili con l’ideologia libertaria dietro a Bitcoin. Altrimenti il rischio per loro è quello di venire limitate, multate o bandite dagli enti regolatori.

La responsabilità è il prezzo della libertà finanziaria

La convenienza degli exchange

Compare criptovalute e lasciarle sugli exchange è comodo e immediato. Chi vuole fare trading può effettuarlo all’istante e nel caso di perdita delle credenziali può fare affidamento sulla piattaforma per recuperarle. Molti permettono poi di depositare criptovalute in staking a tassi d’interesse estremamente allettanti se paragonati ai più tradizionali investimenti, come quelli in titoli di Stato.

Ma tutto questo ha un prezzo. Lasciare i propri bitcoin sulle piattaforme significa, di fatto, non averne il controllo. Comodità e convenienza non sono gratuite.

Chi ha sviluppato Bitcoin lo ha fatto per rendere gli individui liberi di poter gestire autonomamente il proprio denaro, senza dover chiedere il permesso a nessuno e senza correre il rischio di vedere i propri fondi congelati o confiscati (non a caso il dissidente russo Alexei Navalny accetta donazioni in bitcoin).

Quando facciamo un bonifico chiediamo alla banca di elaborarlo per conto nostro: la banca può rifiutarsi. Quando effettuiamo un pagamento con carta di credito chiediamo a un ente terzo di eseguirlo: i casi di censura sono molteplici. Con Bitcoin questo non accade, ma solo se si è in pieno possesso dei fondi: nel caso di banche ed exchange sono loro ad averne il controllo.

Not your keys, not your bitcoin

C’è una differenza fondamentale tra l’avere accesso ai propri bitcoin e possederli.

Per comprenderla a fondo è utile chiedersi che cosa significhi davvero detenere bitcoin.

In termini estremamente semplificati, significa essere in possesso della “password” in grado di sbloccare i bitcoin presenti nel proprio wallet. E questi non sono altro che righe di codice che, in un grande registro distribuito, certificano come altri indirizzi abbiano inviato complessivamente al wallet - fin dal primo momento in cui è stato creato - il saldo disponibile.

In termini leggermente più tecnici, si parla di detenere la chiave privata (o le chiavi private) in grado di certificare la proprietà dei fondi in entrata che ancora non sono stati spesi (UTXO, Unspent Transaction Output), ovvero le transazioni arrivate al wallet i cui importi non sono stati inviati ad altri indirizzi. Senza le chiavi private mai nessuna istituzione potrà congelare o confiscare i fondi ad esse collegate. Solo chi ha le chiavi sposta i bitcoin.

Gestirle implica una grande responsabilità perché se si perdessero o venissero rubate, non esisterebbe assicurazione o servizio al mondo in grado di recuperarle. I fondi controllati da quelle chiavi private sarebbero persi per sempre.

Giacomo Zucco, che nel settore è una figura di riferimento della divulgazione, lo ha spiegato in modo più approfondito in questo video.

Banche ed exchange detengono le chiavi private 

La larga maggioranza degli exchange più conosciuti non fornisce le chiavi private agli utenti. Questo significa che nel registro distribuito di Bitcoin, il valore acquistato dai clienti e lasciato sull’exchange appartiene all’indirizzo pubblico riconducibile alla piattaforma. E’ quest’ultima a detenere le chiavi private e quindi la facoltà di spostare i fondi gestiti.

Se da un lato questa opzione è molto comoda, perché in caso di perdita di credenziali d’accesso al proprio account si potrà sempre chiedere aiuto all’exchange per recuperarle, dall’altro espone gli utenti a un rischio che non possono controllare. Se le chiavi vengono trafugate in un attacco hacker, per esempio, i bitcoin controllati da quelle chiavi si perdono e le piattaforme non possono fare nulla per recuperarli.

Caso raro, si dirà. Niente affatto. Negli anni sono stati innumerevoli i casi di attacchi agli exchange, truffe o fatalità che hanno fatto sparire per sempre i fondi custoditi. Esiste persino un Exchange Graveyard (cimitero degli exchange), sito web che monitora la sparizione delle piattaforme di scambio. Nel 2022 Netflix dedicherà una serie al caso Quadriga.

La responsabilità è il prezzo della libertà

Approfondendo il background culturale di Bitcoin - che va ben al di là degli aspetti speculativi che sono parte naturale della crescita di un asset nato pochi anni fa - si comprenderà come la vera rivoluzione parta proprio da qui: dalla possibilità, per la prima volta nella storia, di gestire una ricchezza non fisica in modo completamente autonomo. Una caratteristica che permette di risparmiare a chi non ha accesso a un conto bancario e, contemporaneamente, di emanciparsi dal sistema finanziario tradizionale a chi lo desidera. Come si dice nel settore: “Be your own bank”.

Ma la libertà non è gratuita: ha il prezzo della responsabilità.

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