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Fermata #91 - Stampa & Bitcoin: la morte del New York Times
Il mining uccide: è ciò che sottintende il quotidiano più autorevole del mondo in un capolavoro di manipolazione dei dati e disinformazione senza precedenti. Il debunking punto per punto
Inizia così il lungo reportage sul mining di Bitcoin pubblicato dal New York Times lo scorso 11 aprile. Una dichiarazione netta: il mining uccide.
La visibilità che viene data all’articolo è sorprendete: la prima pagina del Times è dominata dal reportage con un titolo che non lascia spazio a interpretazioni: Bitcoin divora energia e gli altri pagano un prezzo. I miner approfittano dei momenti di stress delle reti elettriche.
Il tenore del racconto è drammatico. Fiumi di denaro dei contribuenti finiti nelle mani delle mining farm, il cui unico contributo è quello di arricchirsi inquinando l’atmosfera e danneggiando le comunità limitrofe. Cronaca di una catastrofe contemporanea.
Se è vero che nel giornalismo un minimo di storytelling sia necessario per far passare il messaggio in modo fluido, è anche vero che in linea teorica la narrazione dovrebbe essere gestita in modo intellettualmente onesto. Per esempio, raccogliendo dati e costruendo il racconto in base alla loro analisi. Il New York Times, in questa occasione, fa esattamente l’opposto. Parte da una tesi e cerca unicamente dati coerenti con l’idea iniziale: il manuale della disinformazione.
L’avrete capito: la fermata di oggi è dedicata allo smascheramento dell’analisi parziale - costruita da un’accurata manipolazione dei dati a proprio favore - del quotidiano più autorevole del mondo.
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I miner si arricchiscono sulle spalle dei contribuenti
Lo scenario è introdotto immediatamente dal giornale.
Stati Uniti, Texas, febbraio 2021: è in corso la tempesta Uri, che in tutto il Paese farà 137 vittime e infliggerà danni economici per $ 25,5 miliardi. Il freddo sta congelando l'acqua nei pozzi di gas e petrolio. Trentotto impianti di gas chiudono o riducono la produzione. In momenti di tale emergenza è naturale che la domanda di elettricità salga. La rete elettrica texana, gestita dall’ERCOT (Electric Reliability Council of Texas) affronta un momento di criticità con una crescita repentina della domanda.
In Texas vigono degli accordi tra l’ERCOT e i suoi utilizzatori, chiamati Responsive Reserve Service o programmi di Demand Response. Nei momenti di difficoltà, l’ERCOT ha facoltà di chiedere a chi sottoscrive tali accordi di sospendere o diminuire l’intensità della propria attività per pesare meno sulla rete elettrica in cambio di un compenso economico per il tempo in cui l’impresa non lavora. L’idea alla base è che quando c’è shortage di elettricità è un bene che qualche servizio non essenziale nell’immediato - come una mining farm o un impianto manifatturiero - possa essere sospeso, di modo che non debbano fermarsi altre attività fondamentali come, per esempio, quelle ospedaliere.
Come scritto più volte in questa newsletter, dopo il ban cinese gli Stati Uniti sono diventati il primo Paese per quota di hash rate e proprio il Texas è uno dei centri nevralgici del mining americano. Il 59,9% dei mining USA avviene tramite elettricità fornita dalla rete pubblica gestita da ERCOT. Le mining farm, essendo grandi consumatrici di elettricità, partecipano quindi al Responsive Reserve Service e, durante la tempesta Uri, ad alcune di queste viene chiesto di interrompere o di ridimensionare la propria attività per garantire la fornitura elettrica ai servizi più essenziali e scongiurare grandi blackout.
Il programma Responsive Reserve Service, dunque, non è una cospirazione per far perdere soldi ai cittadini texani e non è nemmeno riservato ai soli miner. Esiste da prima della diffusione di Bitcoin ed è un modo per evitare blackout nei momenti di difficoltà. Consumatori di elettricità flessibili come i miner sono clienti perfetti per la stabilizzazione delle reti elettriche, in particolare con l'arrivo di una maggiore quantità di energia rinnovabile, che di natura è intermittente.
L’anno scorso l’ex amministratore delegato dell’ERCOT, Brad Jones, in un’intervista a CNBC ha definito le mining farm come una “grande opportunità per noi”, spiegando i benefici che questo tipo di clienti porta alla rete elettrica.
Anche il Dipartimento dell’Energia (DOE) americano, sul proprio sito, si è espresso positivamente sul programma Demand Response:
E persino il New York Times stesso nel lontano 2006 - quando Bitcoin ancora non esisteva - aveva sostenuto apertamente il programma Demand Response, come fatto notare su Twitter da Level39.
Ma il quotidiano, in un esercizio di stile che capovolge completamente la sua stessa visione, vuole far passare il messaggio che tramite questa pratica i miner stiano rubando soldi dall’ERCOT e, di conseguenza, dalle tasche dei contribuenti. Ancor peggio: sta speculando sui disastri climatici. Il quotidiano, senza offrire contesto, scrive:
Ciò che viene sapientemente omesso è che anche altre società, come alcune università, partecipano al programma e vengono compensate per l’inattività una o due volte l’anno. Nel corso del 2021 l’ERCOT, secondo il suo stesso rapporto, ha effettuato rimborsi per il Responsive Reserve Service per quasi $ 2,6 miliardi. Bitdeer, la mining farm evidenziata dal Times, ha influito sul totale per lo 0,69%.
Il quotidiano sostiene anche che la migrazione del mining dalla Cina abbia fatto alzare il prezzo dell’elettricità:
Il periodo di riferimento non è specificato, ma considerando che il ban cinese è avvenuto a metà 2021 è verosimile che si parta da fine 2021/inizio 2022 fino a oggi.
In tal caso c’è poco da analizzare: si tratta di una falsità. Per verificarlo non serve la società di consulenza energetica, basta verificare i dati pubblici disponibili sul sito dell’Energy Information Administration (EIA): ciò che emerge è che l’aumento dei prezzi per l’energia elettrica in Texas è perfettamente in linea con la crescita dei prezzi nel resto degli Stati Uniti.
Prevalenza di fonti fossili
Su Bitcoin Train ho riportato più volte gli studi dell’ambientalista Daniel Batten che, con una metodologia pubblica, ha mostrato come il mining di Bitcoin venga alimentato globalmente da fonti energetiche rinnovabili per il 52,2% del suo fabbisogno.
Il New York Times dipinge un quadro molto diverso con una raccolta di dati, però, la cui metodologia non è verificabile. Per l’elaborazione delle informazioni il quotidiano si è affidato a WattTime, una compagnia tech non-profit, che ha prodotto risultati sorprendenti per le principali mining farm americane. Coinmint, la più green, si alimenterebbe per il 72% da fonti fossili. Nel caso di Riot Platforms e Viking Data Centers il dato salirebbe rispettivamente al 96% e al 99%.
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In totale, per il Times, la produzione di energia elettrica destinata a 34 mining farm negli Stati Uniti porterebbe all’emissione 16,4 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno. Un dato, nuovamente, pubblicato senza contesto. Anche se fosse verosimile - e tra un attimo capiamo perché non lo è - rappresenterebbe lo 0,04% delle emissioni globali, pari a 36 miliardi di tonnellate di CO2 annue.
Secondo Batten i dati relativi alle fonti fossili sfruttate per fornire elettricità alle mining farm sono sovrastimati in media dell’81,7%.
Questo perché WattTime, la non-profit che ha elaborato i dati, per valutare il potenziale effetto serra sulla produzione di energia elettrica destinata al mining ha utilizzato la tecnica delle emissioni marginali.
Le emissioni marginali sono utilizzate solitamente per valutare gli effetti a breve termine sull’impatto ambientale della rete quando si verifica una variazione della domanda. Ciò che viene misurata è l’emissione dei generatori che entrano in funzione per produrre l’energia elettrica sufficiente a soddisfare la crescita di domanda. Si tratta statistiche molto diverse, dunque, dalle emissioni medie generate dalla produzione di elettricità.
In una rete elettrica in cui la risposta a una variazione della domanda è soddisfatta da combustibili fossili come il gas naturale (tipico della maggior parte delle reti elettriche negli Stati Uniti), è evidente che le emissioni marginali siano molto più alte delle emissioni medie.
Affermare che il mining di Bitcoin sia dannoso per l’ambiente analizzando e fornendo i dati delle sole emissioni marginali non può che far trasparire una cosa: malafede.
Dati molto più attendibili - anche solo per la metodologia di raccolta, che è spiegata nel dettaglio - sono proprio quelli di Daniel Batten. Sul proprio sito Batcoinz l’ambientalista evidenzia che la principale fonte di energia per i miner di tutto il mondo è l’idroelettrico, con il 23,12%. Vengono poi carbone (22,92%), gas (21,14%), eolico (13,98%), nucleare (7,94%) e solare (4,98%).
Il Times non poteva poi farsi mancare il più classico degli strafalcioni: l’ormai onnipresente paragone con Ethereum che, a differenza di Bitcoin, è passato alla Proof-of-Stake.
A volte l’ironia supera la realtà. Ethereum si affida alle persone che vi investono i propri soldi. Per una volta l’informazione è vera. Ma utilizzarla come argomentazione per criticare uno strumento, Bitcoin, che nasce precisamente per eliminare l’influenza derivante dal potere economico degli esseri umani è un capovolgimento logico che forse solamente il New York Times poteva partorire. Complimenti.
Cieli nebbiosi per un futuro inquinato
La manipolazione dell’informazione non poteva essere completa se riservata alla parte testuale. A New York hanno pensato bene di dare anche l’impressione che dei capannoni pieni di server possano effettivamente, in qualche magico modo, generare smog. Il video di copertina del reportage mostra immagini dall’alto della mining farm di Rockdale, una delle più grandi del Texas gestita da Bitdeer.
Lo scenario è al limite dello spettrale. La vera protagonista è la foschia e i colori sono spenti. Quasi non si distingue tra il verde dei campi e il nero di alcuni tetti.
Qualcuno su Twitter si è preso il disturbo di chiedere all’autore del video se il lavoro fosse stato modificato in fase di post-produzione per far apparire l’ambiente più inquinato. Il videomaker ha quindi risposto che non c’è stata alcuna modifica ma che in Texas “è umido quasi tutte le mattine e quando il Sole sorge arriva la foschia anche a basse altitudini”.
Per sua sfortuna molti bitcoiner sono abituati a verificare e non fidarsi. Un utente ha mostrato l’analisi spettrografica del video, evidenziando come una parte dei colori sia artificialmente piatta, a livello zero: fattore non naturale che evidenzia una selezione molto accurata dei profili colore. Al punto che un altro utente commenta: “Per i non esperti, ho evidenziato la parte che non dovrebbe essere mai piatta. Anche se faceste una foto a una zebra che gioca scacchi in una giornata nuvolosa, il grafico non sarebbe così”.
Non pubblicherò qui la foto originale. Invito tutti voi a fare una semplice ricerca Google e a trarre le vostre conclusioni. Vi basterà digitare “Rockdale Texas Mining”.
Alla fallacia logica del far sembrare inquinato un posto in cui operano dei server - come se la CO2 non venisse emessa dai produttori di elettricità ma dai computer - ha risposto con un video satirico una delle principali aziende chiamate in causa dal New York Times, Riot Platforms, anch’essa proprietaria di un grande stabilimento a Rockdale. Il post ha raccolto più consensi su Twitter dell’articolo stesso.
Proprio Riot Platforms, dopo l’uscita dell’articolo del Times, ha pubblicato un comunicato stampa in risposta al reportage intitolato: L’attacco politico del New York Times al mining di Bitcoin è pieno di distorsioni e di vere e proprie falsità.
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Saifedean Ammous è un economista e autore di The Bitcoin Standard, il libro più venduto su Bitcoin, tradotto in 36 lingue! Tiene corsi di economia sulla sua piattaforma di apprendimento online Saifedean.com e conduce The Bitcoin Standard Podcast.
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