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Fermata #94 - Jack Dorsey contro Faketoshi
Il fondo istituito dall'ex CEO di Twitter fornirà assistenza legale a 11 sviluppatori Bitcoin a cui ha fatto causa Craig Wright. Un caso che avrà forti conseguenze sull'intero sviluppo open-source
Un fondo legale istituito da Jack Dorsey, fondatore ed ex amministratore delegato di Twitter, si batterà nei tribunali inglesi contro Craig Wright per difendere 11 sviluppatori Bitcoin che mercoledì 26 aprile hanno presentato la loro difesa.
L’uomo che da anni proclama di essere l’autentico Satoshi Nakamoto senza mai aver fornito una prova anche solo lontanamente credibile - tanto da essersi visto attribuire l’appellativo di Faketoshi - porterà davanti a un giudice alcuni sviluppatori per farsi restituire dei bitcoin di cui avrebbe apparentemente perso il controllo.
Se quest’ultima frase vi ha confuso le idee, avete perfettamente ragione. Andiamo con ordine.
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La causa agli sviluppatori Bitcoin
Craig Steven Wright - la cui storia è raccontata nel dettaglio nella fermata #54 - da circa otto anni prova a convincere il mondo di essere l’inventore di Bitcoin. Lo fa a forza di cause legali e senza successo ma costringendo spesso le vittime prescelte a sborsare grandi quantità di denaro in avvocati.
L’ultima trovata è quella di provare che la società di cui Wright è amministratore delegato, la Tulip Trading, sia proprietaria di due indirizzi ai quali sono collegati 111.000 bitcoin. Da un punto di vista crittografico, una cosa di rara semplicità: basterebbe firmare un messaggio con le chiavi private che controllano quegli indirizzi. Tuttavia, né la Tulip Trading né Craig Wright hanno le chiavi private: l’alternativa è la via legale.
La pretesa: “Gli sviluppatori blocchino le transazioni illegittime”
In una lettera datata 12 giugno 2020 la Tulip Trading rivendica il possesso delle chiavi private legate ai due indirizzi:
1FeexV6bAHb8ybZjqQMjJrcCrHGW9sb6uF
12ib7dApVFvg82TXKycWBNpN8kFyiAN1dr
Ma come giustificare il fatto di non poterle utilizzare per fornire delle prove crittografiche? Secondo quanto scritto le chiavi sarebbero state sottratte all’azienda con un attacco informatico avvenuto poco più di quattro mesi prima. Il 5 febbraio 2020, sempre secondo la Tulip Trading, la rete domestica di Craig Wright sarebbe stata hackerata e le chiavi non solo rubate ma anche eliminate dai dispositivi di Wright.
Chi segue da tempo questa newsletter ormai lo sa: perdere l’accesso alle proprie chiavi private significa perdere i propri bitcoin. Non c’è speranza di riottenerli, se non quella di ritrovare le chiavi. Ma Craig Wright non si cura delle leggi della matematica. Nella lettera la Tulip Trading si rivolge ad alcuni sviluppatori di Bitcoin Core - il più diffuso client che implementa il protocollo Bitcoin, ma non l’unico - e, in particolare, ai maintainer del suo codice su GitHub.
L’azienda sostiene che gli sviluppatori abbiano il dovere di bloccare eventuali transazioni illegittime sulla blockchain di Bitcoin, annunciando la volontà di recuperare il controllo delle chiavi apparentemente rubate.
La pretesa è surreale. Si parla di Bitcoin come di rete trustless e permissionless proprio perché nell’utilizzarla non si ripone fiducia in nessuno, così come non si chiede permesso a nessuno. Gli sviluppatori che contribuiscono al codice di Bitcoin Core non hanno in alcun modo la possibilità di censurare transazioni, né di applicare modifiche arbitrarie al consenso di Bitcoin.
Quando viene apportata una modifica al software del client ad approvarne la pubblicazione sono i maintainer, che ad oggi sono cinque: Michael Ford, Hennadii Stepanov, Andrew Chow, Gloria Zhao e Marco Falke (che smetterà quest’estate). Anche quest’ultimi non hanno il potere di cambiare le regole del protocollo Bitcoin, possono unicamente approvare o rigettare modifiche al codice di Bitcoin Core, uno dei client software che implementano il protocollo.
Nella lettera la Tulip Trading include un paragrafo che fa trasparire con molta probabilità la volontà di confondere le idee ai giudici1. I token bitcoin, il denaro digitale vero e proprio, vengono associati a Bitcoin Core, cioè uno dei software che ne implementa le regole.
La causa
In Inghilterra un anno più tardi, il 29 aprile 2021, Craig Wright e la sua azienda fanno causa a 11 sviluppatori Bitcoin chiedendo, tra le altre cose, che:
Gli sviluppatori riconoscano in tribunale che i bitcoin associati ai due indirizzi siano di proprietà di Tulip Trading;
Gli sviluppatori risarciscano Tulip Trading inviandole i fondi a un indirizzo che l’azienda sia in grado di controllare oppure effettuando modifiche al software di Bitcoin Core in modo che l’azienda possa recuperare i bitcoin rubati.
Avete letto bene: Wright chiede a un gruppo di 11 sviluppatori di applicare delle modifiche a un protocollo distribuito tra decine di migliaia di computer in tutto il mondo, semplicemente modificando il funzionamento di un client.
Per rendere credibile la richiesta di danni, all’interno della causa vengono riportate delle vere e proprie falsità. In particolare a pagina 8 e 9 si legge:
Non una singola parola di quanto avete appena letto è vera. Per approfondire le modalità di aggiornamento del codice di Bitcoin Core, rimando alla fermata #14.
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La difesa guidata da Jack Dorsey e la minaccia all’open-source
Pochi mesi più tardi, il 12 gennaio 2022, il fondatore di Twitter Jack Dorsey, insieme ad Alex Morcos e Martin White, annuncia con una mail alla bitcoin-dev mailing list la nascita del Bitcoin Legal Defense Fund: una non-profit con l’obiettivo di “ridurre al minimo i grattacapi legali che scoraggiano gli sviluppatori dal lavorare attivamente su Bitcoin e sui progetti correlati”.
Nella stessa mail Dorsey specifica che “le prime attività del Fondo saranno quelle di assumere il coordinamento dell'attuale difesa della causa Tulip Trading contro alcuni sviluppatori e di fornire la fonte di finanziamento per i consulenti esterni”.
Solamente due mesi dopo arriva il primo pronunciamento: il giudice respinge il caso di Tulip Trading in quanto l’azienda non ha "stabilito una questione seria da giudicare". Purtroppo non è il lieto fine. Lo scorso febbraio tre giudici della Corte d'Appello britannica annullano la decisione iniziale e aprono la strada a un vero e proprio processo. Mercoledì 26 aprile, come anticipato a inizio articolo, gli sviluppatori presentano la loro difesa in attesa del processo che si terrà, con ogni probabilità, non prima del 2024.
Se prevarrà la razionalità l’esito del processo sarà scontato, non dissimile da quasi tutte le cause intentate in passato da Craig Wright. Tuttavia, è legittimo preoccuparsi. Come avverte lo stesso Bitcoin Legal Defense Fund, qualora Wright dovesse avere la meglio le implicazioni sarebbero gravissime per l’intero sviluppo open-source, non solo per Bitcoin.
Significherebbe che gli sviluppatori potrebbero diventare fiduciari nei confronti degli utenti del software a cui hanno contribuito. Potrebbero essere legalmente obbligati a tutelare in qualche modo gli utenti del software, senza sapere chi siano quest’ultimi, quanti siano o dove si trovino, nonostante le licenze open-source escludano espressamente la responsabilità.
Di fatto verrebbe disincentivato l’impegno nel mondo open-source, un settore che ha generato nel corso della sua esistenza i principali strumenti di tutela delle libertà individuali e dei diritti umani che l’uomo oggi conosca nel mondo dell’informatica.
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