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Fermata #224 - Il peso politico della libertà
Zuckerberg annuncia l'allentamento della moderazione in Meta per strizzare l'occhio all'amministrazione Trump, ma le posizioni del tycoon sono solo una casella di un effetto domino partito molto prima di lui.
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Immagine generata con Grok.
Le recenti elezioni sembrano rappresentare un punto di svolta culturale verso la priorità della libertà di espressione. Perciò torneremo alle nostre radici concentrandoci sulla riduzione degli errori, sulla semplificazione delle nostre policy e sul ripristino della libertà di espressione sulle nostre piattaforme.
E’ questo il passaggio chiave del video pubblicato da Mark Zuckerberg, Ceo di Meta, lo scorso 7 gennaio. Le piattaforme del gruppo adotteranno una distensione delle policy di moderazione dei contenuti in nome, secondo le parole del fondatore di Facebook, della “libertà di espressione”.
Nello specifico, le azioni che intraprenderà Meta sono suddivise in quattro punti principali:
Eliminazione dei fact-checker negli Stati Uniti e sostituzione con le community notes, simili a quelle di X;
Rimozione di alcune restrizioni sui contenuti su temi come immigrazione e genere;
Modifica dell'applicazione delle policy in caso di violazioni: a) utilizzo dei filtri automatici solo per violazioni illegali o di alta gravità; b) richiesta delle segnalazioni da parte degli utenti prima di agire su violazioni di bassa gravità; c) aumento della soglia di sicurezza necessaria per rimuovere contenuti;
Trasferimento dei team di trust and safety e moderazione dei contenuti dalla California al Texas.
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L’influenza della politica su Meta
Come sempre, quando si tratta di decisioni che influiscono sulla quotidianità di miliardi di persone, l’annuncio ha fatto il giro del mondo e riacceso il dibattito relativo al confine tra censura, moderazione e libertà di parola online.
Le principali testate globali sono state inondate da editorialisti pronti a mettere in gioco il proprio acume per individuare nell’esito delle elezioni americane la causa principale della decisione di Meta. Fiumi di inchiostro per sentenziare ciò che, come avete letto nell’introduzione, ha ammesso candidamente Zuckerberg stesso nel suo annuncio: “Le recenti elezioni sembrano rappresentare un punto di svolta culturale verso la priorità della libertà di espressione”.
E’ evidente che la svolta - per ora solo a parole e che dovrà essere confermata dal tempo - ha direttamente a che fare con il cambiamento del vento politico negli Stati Uniti. Lo dimostra quello che è davvero il punto più rilevante del comunicato di Meta: non tanto la rimozione dei fact-checkers, quanto lo spostamento dei team di trust and safety e moderazione dei contenuti dalla California - stato democratico - al Texas - stato repubblicano.
Per comprendere meglio la svolta di Meta, bisogna tornare agli anni della pandemia, quando le piattaforme digitali sono diventate arene centrali per il dibattito pubblico. Durante l’amministrazione Biden, la presunta lotta alla disinformazione ha portato il governo a collaborare attivamente con le piattaforme social, esercitando pressioni affinché censurassero contenuti considerati pericolosi o fuorvianti.
“Censura, che parolone”. Ebbene, si è trattato precisamente di censura.
La differenza tra censura e moderazione
La distinzione tra censura e moderazione risiede principalmente nelle motivazioni e nelle dinamiche di potere che spingono a rimuovere o limitare un contenuto.
Moderazione è l'atto di una piattaforma privata che, sulla base di proprie policy e linee guida, decide autonomamente quali contenuti permettere o rimuovere all'interno del proprio ecosistema. Questo processo è una diretta espressione del diritto di proprietà: il software, l'infrastruttura e le regole sono create e gestite dalla piattaforma, che ha la piena facoltà di scegliere cosa ritiene appropriato a casa sua. In questo contesto, la moderazione è una decisione volontaria e interna, basata su valori o strategie commerciali della piattaforma stessa.
Censura, invece, si verifica quando l'intervento sulla rimozione di contenuti non nasce da una decisione autonoma della piattaforma, ma è il risultato di pressioni esterne, per esempio quelle governative. Quando un governo utilizza il suo monopolio della forza (attraverso minacce di sanzioni, regolamentazioni stringenti o altre misure punitive) per imporre alla piattaforma la rimozione di contenuti che essa, altrimenti, non avrebbe limitato, si entra nel campo della censura.
In una lettera aperta pubblicata lo scorso agosto Zuckerberg ha ammesso di aver ceduto alle pressioni del governo americano.
“Abbiamo fatto errori nel gestire il rapporto con i governi durante la pandemia, accettando richieste che in retrospettiva non avremmo dovuto accettare. Dobbiamo assicurarci che tali errori non si ripetano”.
“Ma Federico - penserete - questa è una newsletter su Bitcoin. Che c’entrano le policy di moderazione di Meta?”
C’entrano, eccome. Perché se la decisione di Zuckerberg non arriva dal nulla ma è motivata da specifici interessi, lo stesso può dirsi di quella di Trump di dedicare parte della sua campagna elettorale al tema della libertà di espressione.
Il peso delle tecnologie decentralizzate sulla politica
L’interesse sempre più diffuso nei confronti di Bitcoin rappresenta una cartina al tornasole della domanda di libertà. E negli Stati Uniti, di domanda, ce n’è già molta. Sarà per le radici culturali del Paese, per una costituzione tra le più liberali al mondo o per mille altre ragioni, ma gli Usa sono il quarto Paese per adozione di criptovalute secondo il Global Crypto Adoption Index 2024 di Chainalysis.
Le stime sono difficilmente accurate e spesso discordanti, ma tra le varie ricerche disponibili è verosimile ipotizzare che all’incirca il 15% della popolazione statunitense abbia utilizzato almeno una volta bitcoin: si tratta di decine di milioni di persone. Una quota consistente, impossibile da ignorare per chi voglia puntare a vincere le elezioni.
Come ha saggiamente scritto Carlo Lottieri lo scorso 9 gennaio sul quotidiano Il Giornale:
“Il gruppo dirigente costituitosi attorno a Donald Trump mostra un'attenzione particolare per bitcoin e in campagna elettorale molti candidati repubblicani si sono espressi nettamente a suo favore.
Lo stesso presidente sa che una parte rilevante del proprio elettorato ha investito in questa valuta, ma soprattutto pensa che le istituzioni americane non debbano avversarla: in quanto strumento fondamentale per tutelare il risparmio e la privacy”.
Non è un caso che Trump abbia parlato alla Bitcoin Conference di Miami in questi termini:
“Non ci sarà mai una CBDC americana fino a quando sarò Presidente degli USA e difenderò sempre il diritto alla self-custody. L’America diventerà di nuovo una nazione che protegge i diritti di proprietà, la privacy, la libertà di effettuare transazioni, la libertà di associazione e la libertà di parola”.
Sebbene a Bitcoin vada riconosciuto gran parte del merito per il crescente interesse delle persone ai temi della libertà individuale, della privacy e della resistenza alla censura, anche le altre tecnologie peer-to-peer hanno dato il loro contributo.
Prima fra tutte, Internet, senza cui Bitcoin non esisterebbe. Il movimento Cypherpunk ha potuto sviluppare gli strumenti utili alla propria visione libertaria grazie alla presenza di Internet. E chissà che, in tempi ben più recenti, un piccolo contributo non l’abbia dato anche Nostr.
L’effetto domino - qualcuno lo chiamerà Teoria dei Giochi - scatenato dalle tecnologie P2P, in particolare Bitcoin, ha fatto molte vittime. Gli individui che se ne interessano, ci investono, ne fanno la loro occupazione, ne parlano agli altri, generando quindi un virtuoso effetto network che crea una comunità progressivamente più nutrita. La politica, che viene sedotta dalle dimensioni sempre crescenti di questa comunità. E, infine, le grandi piattaforme che provano ad applicare misure più orientate alla libertà di parola per entrare nelle grazie di quella politica che ha fatto della libertà una bandiera per strizzare l’occhio alla comunità.
Se questo sia l’inizio di vero e proprio cambiamento culturale è difficile a dirsi. Ma è la dimostrazione che quella tecnologia nata 16 anni fa ha conseguenze dirette non solo nei campi dell’informatica, dell’economia o dell’energia, ma anche in quello sociale.
In altre parole: fix the money, fix the world.
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