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Fermata #1 - Bitcoin vs Greenwashing
Il consumo energetico di Bitcoin non è un difetto: è la sua forza. E l'accordo tra Macquarie e Blockstream per il mining a impatto zero è l'ultimo sviluppo della transizione verso le rinnovabili
Sul fabbisogno energetico di Bitcoin si leggono da anni paragoni di ogni genere e i confronti con le nazioni sono quelli che vanno per la maggiore:
Il Sole 24 Ore - “Bitcoin consuma più di un intero Paese come la Svezia”
Corriere della Sera - “Le emissioni provocate da Bitcoin sono equivalenti ai livelli di Giordania e Sri Lanka”
Corriere della Sera bis - “I Bitcoin consumano energia quanto l’intera Argentina”
Repubblica - “L’Islanda rischia di rimanere al buio per colpa di Bitcoin”
Non ci si limita ai soli paesi. A volte i riferimenti sono circoscritti alle città - come nel caso di Wired - e c’è chi si spinge a sostenere che la criptovaluta sia nociva per il pianeta (Fortune).
Ma quanta energia utilizza davvero Bitcoin? E soprattutto: è la domanda giusta? Consumo energetico ed emissioni non sono la stessa cosa.
Nella #fermata di oggi - oltre a rispondere a questi interrogativi - cercheremo anche di capire perché la caratteristica energivora di Bitcoin sia un suo valore intrinseco e non una debolezza.
Inquinamento e fonti
Quanta elettricità serve a Bitcoin
Il Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index - che stima quotidianamente il fabbisogno energetico di Bitcoin - mostra come la criptovaluta attualmente consumi 97,7 terawattora1 all’anno, un valore in effetti in linea con quello di molti paesi. Il punto è: si tratta del confronto giusto?
Bitcoin non ambisce a diventare uno Stato-nazione, rappresenta piuttosto un sistema finanziario alternativo e in molti lo definiscono già oggi oro digitale: meglio quindi confrontarlo con i suoi reali competitor.
Un rapporto pubblicato a maggio da Galaxy Digital ha evidenziato come il sistema bancario consumi ogni anno oltre 250 terawattora, quasi il triplo di Bitcoin (a chi pensasse che “le banche servono a tutti, Bitcoin non serve a nessuno” consiglio vivamente la lettura della fermata #0 di questa newsletter). Per estrarre l’oro occorrono 131 terawattora all’anno.
Nella ricerca emerge anche che l’energia elettrica globale dissipata ogni anno durante il trasporto ammonta a 2205 terawattora e che la tecnologia always-on dei dispositivi elettrici americani spreca - è il caso di dirlo - 1375 terawattora.
L’energia a disposizione, quindi, c’è. Il problema non sta nel domandarsi quanta ne serva a Bitcoin, ma da quali fonti venga ricavata: fossili o rinnovabili?
Da dove viene l’energia
Se è piuttosto semplice calcolare il fabbisogno energetico di Bitcoin, non lo è altrettanto ricavarne le fonti di approvvigionamento. La regolamentazione al riguardo è ancora agli albori e i miner2 in molte parti del mondo non sono tenuti a dichiarare come ottengano l’elettricità.
L’anno scorso, tuttavia, il Cambridge global cryptoasset study ha stimato che il 39% dell’energia consumata dal network provenisse da fonti rinnovabili. Inoltre il 76% dei miner avrebbe incluso tra le proprie fonti anche quelle green.
Nel corso dell’anno però i dati potrebbero essere significativamente migliorati. Il mining ban introdotto dalla Cina (la cui produzione energetica si basa in gran parte sulle centrali a carbone) ha portato i minatori locali a spostarsi nei paesi limitrofi ma soprattutto in Nord America, dove le fonti green sono molto più diffuse.
A luglio di quest’anno il Bitcoin Mining Council (che riunisce aziende e gruppi del settore) ha pubblicato un sondaggio sul 32% del network ed è emerso che nel secondo trimestre 2021 le rinnovabili ne hanno coperto il 56% del fabbisogno.
Un traino per la transizione green?
C’è poi chi crede che non solo Bitcoin diventerà sostenibile al 100%, ma che sarà un traino per la transizione energetica globale. Lo hanno scritto in un paper pubblicato ad aprile l’asset manager Ark Invest e Square, azienda fondata dal ceo di Twitter - e noto bitcoiner - Jack Dorsey:
Il mining di bitcoin potrebbe trainare gli investimenti in impianti solari (pannelli e batterie), permettendo alle rinnovabili di generare una maggiore quantità di energia dai pannelli senza potenzialmente aumentare il costo dell’elettricità
Le motivazioni sono molto concrete: il documento riporta come l’energia elettrica derivante dal solare costi in media tra i 3 e i 4 centesimi di dollaro per kWh, mentre quella ottenuta dai combustibili fossili costi tra i 5 e i 7 centesimi.
Le fonti rinnovabili sono più economiche di quelle inquinanti e i miner hanno tutto l’interesse nel pagare l’elettricità il meno possibile per massimizzare il profitto.
I segnali dall’industria in questo senso sono stati molti, l’ultimo in ordine di tempo è arrivato da Blockstream, una delle più importanti aziende del settore guidata da Adam Back (padre dell’algoritmo di proof-of-work - vedi nota 2 - e citato nel white paper di Bitcoin). Il gruppo ha annunciato pochi giorni fa una partnership con il colosso di servizi finanziari australiano Macquarie per progettare e costruire strutture dedicate al mining a emissioni zero.
Bitcoin è un asset garantito dall’energia
Diffidare da una tecnologia così energivora è legittimo. Sarebbe però opportuno comprenderne anche il funzionamento.
Bitcoin è una rete decentralizzata peer-to-peer. Questo significa che non esiste un unico punto di vulnerabilità. Per compromettere il network - cosa tuttora mai successa - è necessario controllarne la maggioranza (si parla dell’attacco al 51%). Per onestà intellettuale è bene dire che non si tratta di uno scenario totalmente irreale ma le chances sono, per usare un eufemismo, infinitesimali.
E’ quindi facile comprendere come con la crescita del network - con l’arrivo di nuovi utenti, nuovi nodi e sopratutto di nuovi miner che investendo in potenza di calcolo aumentano la concorrenza nel settore - cali in maniera proporzionale la vulnerabilità di Bitcoin. In breve: più la rete si allarga, più consuma energia, più diventa inattaccabile. E il fabbisogno energetico salirà tantissimo: gli utenti di Bitcoin oggi sono paragonabili a quelli di Internet a fine anni ‘90.
L’idea di un asset che come sottostante abbia l’energia può sembrare folle o rivoluzionaria a seconda di come la si pensi, ma certo non è nuova. La proponeva già Henry Ford in un articolo del New York Tribune del 3 dicembre 1921 dal titolo “Ford sostituirebbe l’oro con una valuta energetica e fermerebbe le guerre”:
Il problema essenziale dell'oro nella sua relazione diretta con la guerra è il fatto che può essere controllato. Elimina il controllo e fermerai la guerra.
Oggi la grande sfida di Bitcoin - che a differenza dell’oro non è controllato da un ente centrale - è quella di espandersi globalmente in modo sempre più capillare, raggiungendo un’adozione di massa garantita e messa in sicurezza da fonti energetiche completamente rinnovabili.
Sebbene sia emerso con particolare forza solo negli ultimi anni, il problema dell’inquinamento se lo poneva anche una delle figure più importanti della storia di questa tecnologia. Hal Finney, scomparso nel 2014, fu il destinatario della prima transazione in bitcoin della storia inviata da Satoshi Nakamoto, lo pseudonimo che cela l’identità del creatore (o creatori?) della criptovaluta.
Thinking about how to reduce CO2 emissions from a widespread Bitcoin implementation
— halfin (@halfin)
8:14 PM • Jan 27, 2009
Il 27 gennaio 2009 Hal Finney pensava “a come ridurre le emissioni di CO2 con un’adozione diffusa di Bitcoin”, che era nato solamente 24 giorni prima, il 3 gennaio 2009.
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